martedì 28 giugno 2011

Alla fine della storia...


Era cominciata come tutte le storie d’amore. Ci siamo incontrati nel più banale dei modi, presentati da qualche amico comune, che probabilmente ci vedeva bene insieme. Ci si è scrutati per qualche tempo da lontano e annusati con la diffidenza di chi è già stato deluso, poi ogni tanto a salutarci con finto distacco, giocando con gli sguardi e immaginando futuri possibili.
E’ continuata banalmente, a parlare ad un tavolo più per volontà che per caso, discutendo per interminabili minuti di prospettive, futuro, sogni e speranze. La partita a scacchi del corteggiamento, vecchia come il mondo. Ti ho raccontato del mio passato sforzandomi di farlo apparire più grande di quanto non fosse, solo per farmi grande ai tuoi occhi, curavo pose e parole per sembrare sicuro di me. E tu a troneggiare tra le tue sicurezze, a farmi capire che tra i due ero io quello che aveva bisogno dell'altro. Non viceversa. Quelle chiacchierate fatte di maschere e corazze, dove ognuno si fingeva ciò che pensava l’altro volesse vedere. Muscoli contratti, arguzia messa in mostra come un dozzinale gioiello. Un’estenuante battaglia di posizione, alla ricerca di un punto di equilibrio.
Siamo stati insieme parecchio, quasi un anno e mezzo. E’ stato intenso ed impegnativo, ma non posso dire che mi rimarrà un buon ricordo. Non si è rivelato il grande amore che speravo, se ci penso ora non ho mai neanche preso in considerazione l’idea di una vita insieme. Sono cose che di solito uno pensa dopo qualche tempo, almeno credo.
E invece mi rimarranno impresse nella memoria le levatacce la mattina per venirti a trovare, i tuoi sfoghi senza il conforto di una giustificazione logica, le richieste impossibili, irragionevoli, che ho sempre portato a termine con prona solerzia. Ho dato tutto per te, anche al di là di ogni buon senso. E tu che mi hai dato in cambio? Non mi sono mai sentito importante, uno schiavo ricattato dai tuoi magri riconoscimenti e alla mercé delle tue lune imprevedibili.
Una coppia, quando funziona, dovrebbe valorizzare il carattere di entrambi, le loro passioni, rendere entrambi migliori. Tu mi hai reso solo più vuoto e cinico, mi hai fatto trascurare i miei amici e la mia famiglia rendendomi qualcosa che non sono e che non voglio più essere.
Ma non si può dire che ti mollerò o che mi mollerai tu. Certe storie giungono ad una conclusione semplicemente così, naturalmente, è come se avessero una data di scadenza. E alla fine della storia, tra due soli giorni, sarò finalmente un uomo libero. Un sollievo, lasciamelo dire. Ma non devo darti più importanza di quella che meriti: in fondo, eri solo un lavoro.

giovedì 3 marzo 2011

Uccido!

 
 
Io uccido. Questo faccio. Togliamoci subito dall’imbarazzo dell’ambiguità. Intendiamoci, faccio molte altre cose: ho un lavoro, i miei hobby e le mie amicizie, una vita per nove decimi normale. E’ quel decimo che mi differenzia, che mi eleva o mi abbassa, secondo morale, da te e da tutti gli altri.
Ti fermo subito. Niente genitori violenti, non mi stupravano quand’ero piccolo, non sono stato abbandonato. Niente di tutto ciò. Ho avuto un’infanzia banale, ordinaria. Mi sono rotto una caviglia, innamorato, ho fumato le canne. Ho pianto e riso fino alle lacrime. Proprio come te. Mi sono ubriacato, ho vomitato, fatto cazzate. Forse meno di quanto non lo abbia fatto tu.
 
Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è un altro. E’ la noia che mi frega, come è sempre stato. Una noia aggressiva che mi prende, che mi ha sempre preso quando le cose andavano bene, quando non avevo preoccupazioni banali che occupassero la mia mente e le mie giornate. In quei momenti ho bisogno di stare male, anzi ho bisogno che qualcuno stia male al posto mio. Una predisposizione che ho sempre avuto, una sorta di vaga tendenza alla depressione che fino a un certo punto della mia vita non riuscivo a sfogare. Potevo solo reprimerla. E a reprimere le cose, si sa, prima o poi si scoppia. Per fortuna sono sempre stato bravo a mascherare i miei stati d’animo, evitando fastidi inutili come l’empatia, o la compassione del prossimo, o magari di finire in analisi. L’ho gestita da solo e da solo ho trovato la soluzione, una delle cose che mi rendono più orgoglioso di me stesso.
 
Non mi piace il dolore, non sono quel tipo di persona. Non sono particolarmente violento, o incline alla collera e non mi impressiona il sangue, ma non sono neanche tipo da sfregiarsi, infilzarsi o cose così. Ho bisogno di vedere qualcuno star male, ringhiare come un cane in trappola, poi farsi collaborativo, disperato, quindi rassegnarsi. Diventare docile e coltivare la vana speranza di una qualche salvezza. Sono sadico, questo si, in un certo senso. Ma questo immagino l’avessi intuito.
 
E poi tagliare la carne. Che goduria. Incidere la pelle olivastra di quella bellissima ragazza portoghese con cui ho flirtato in discoteca qualche settimana fa, non puoi capire come ti fa sentire bene. E’ un piacere estetico, ti da la sensazione che il mondo abbia un senso. Un incisione delicata su quel seno burroso ed ecco il sangue fare capolino timido, e poi sgorgare sempre più deciso sotto la coppa, sulla pancia, fino al monte di venere. Naturale come ha da essere, come un fiume che scorre fino al mare. E lei che mi fissa con gli occhi spalancati a implorare neanche lei sa cosa, la vita, la morte, o forse una qualche pace. E tu che senti che soffre come te, più di te, che tu puoi continuare a vivere la tua vita e lei no, perché l’hai deciso tu. Le ho tagliato la gola con un gesto armonioso, quasi ad accarezzarla, poi l’ho guardata gorgogliare nel suo sangue e l’ho baciata sulle labbra. Bacio tutti quelli che uccido sulle labbra, uomini e donne. Non c’è niente di sessuale, è solo un commiato, sono persone che sento vicine, con cui condivido i miei momenti più intensi. Io li amo, per qualche ora li amo, poi ognuno per la sua strada.
 
Nella vita tutto sommato ho anche avuto fortuna. Ho la fortuna per esempio che mio padre di lavoro non faccia il postino o l’impiegato. Gestisce una discarica, un vecchio che ammassa immondizia in aperta campagna, un posto puzzolente, sporco e indesiderabile. Proprio come mio padre. Questo mi da lo spazio, il tempo e la tranquillità di passare la notte con i miei amanti, corteggiarli con calma, danzare con la loro sofferenza per ore sotto la luna. Posso prendermi il mio tempo ed assaporare queste sensazioni che la vita non sa darmi, giocare con la vita e la carne come un bambino con sabbia e paletta. Torno innocente per qualche ora e mi sento una creatura in pace con il creato. Di solito è dopo questi momenti, che mi monta una tristezza infinita, mi sento un miserabile. Un dolore fisico, puntuale, fortissimo, come se un diamante mi si fosse conficcato nella fronte. Il cervello mi esplode, il cuore accelera fino quasi a soffocarmi, la nausea mi contorce le budella. Dopo l’estasi arriva la sofferenza, cristallina anch’essa, pura.
 
Allora mi trascino a casa, mi faccio una doccia bollente e mi metto a letto. E lì piango, piango per ore fin quando non mi si asciuga il cervello, il cuore si stanca e lo stomaco collassa. Ed è allora, quando in corpo non ho più niente se non disperazione, che mi addormento e dormo, profondamente, senza sogni.
 
La mattina poi mi sveglio riposato e di buon umore. Eseguo il solito rituale della colazione: pancake, spremuta e una bella tazzona di caffè bollente. Metto il  mangime nella ciotola del gatto, esco di casa e ritorno, col sorriso sulle labbra, ai nove decimi di vita che ci hanno fatto incontrare.
 
E vado avanti qualche mese a vivere di rendita sulle emozioni, giocando a fare l’impiegato del mese o il figlio coscenzioso. Finché la noia non ritorna. Quella di cui ti ho parlato, che cresce e si espande inesorabile nel tempo. E io la tengo sotto controllo, mi tengo occupato e la ignoro. Però stasera, mia cara, non è così. Stasera io uccido.

mercoledì 2 marzo 2011

La Nostra Gente



Appoggiata con cura la lambretta sul cavalletto, restò qualche istante col naso al cielo ad ammirare l’inesorabile decadenza della facciata. Quel vecchio edificio spoglio, raggrinzito dal sole e da anni di incuria, manteneva tuttavia un aspetto robusto, familiare, non molto diverso da come se lo ricordava.

Inserì la chiave nella toppa e spintonò con forza il robusto portone che sbatté, cigolando ruggine su tutto il muro. Abbozzò un sorriso a mezza bocca e attraversò l’ingresso con passo deciso, salvo poi rallentare appena passato l’uscio. Camminando per l’ampio ingresso prese a indugiare su ogni dettaglio per provare a ricordare ciò che era cambiato da come se lo ricordava, così senza quasi accorgersene, arrivò alla  fine del corridoio, al piccolo atrio che dava sul piano di sopra, la sua meta. Anche se conosceva quella casa palmo a palmo fin da quando era bambino, gli metteva sempre un po’ di soggezione salire la scala che portava al piano di sopra. Era una vecchia scala di noce, tinteggiata di un bianco sporco, senza troppa perizia a dire il vero. Ma non era la scala la fonte di quella poco definita sensazione che gli scaldava lo stomaco e gli fiaccava le gambe. Sul lato destro, lungo tutta la parete, erano appese, ordinatamente disposte una accanto all’altra, le foto di famiglia, di entrambi i rami della famiglia. Decine e decine di ritratti, foto di gruppo, consunte foto giallastre, polaroid scurissime, che riempivano ogni centimetro della ridicola carta da parati che decorava l’enorme parete.

C’era la foto del Signor Giancarlo, il precedente marito della nonna materna, morto in Russia nel millenovecento e qualcosa. Il più banale dei ritratti in posa prima della partenza per la leva. Lo sguardo tronfio e vagamente pieno di sé, ingiallito e reso più profondo di quanto in realtà non fosse dal facile fascino del seppia. Quella divisa di una taglia più grande, che sarebbe dovuta essere utile per essere imbottita nel freddo del fronte, ma che non l’aveva protetto dal destino e dalle cartucce. Una vita lontana e di cui tutto sommato non sentiva il peso, ma che un suo scopo ai suoi occhi l’aveva avuto: lo zio Gianni, emigrato in Svizzera grazie alle agevolazioni come orfano di guerra, aveva potuto farsi una famiglia, figli e nipoti e ora si godeva pacioso e sorridente la meritata pensione. Gli stava simpatico lo zio Gianni.

Poi le classiche foto di gruppo della famiglia di suo padre. Tutti sempre nella stessa posizione, foto dopo foto: lui e le sue cinque sorelle in posa in fila indiana, dalla più giovane al più vecchio. Quella che gli piaceva di più, scattata al quarantesimo compleanno della nonna, era piena di particolari che lo mettevano di buon umore. Le gemelle, due gocce d’acqua, vestite come sempre allo stesso modo, con un pacchiano maglione rosso a collo alto e la medesima buffa smorfia di fastidio: avevano il muso perché avevano appena litigato. Ora non sembravano più nemmeno parenti, ma continuavano a litigare futilmente come sempre. E le spalline imbottite, i pantaloni dalle forme e i colori più improbabili, lo sguardo assonnato di mio padre, tutto concorreva a rendere quella foto buffa.

O le foto delle vacanze al mare coi cugini, fatte quasi per gioco con le usa e getta che si trovavano nei fustini del detersivo. Improvvisati scatti corali, fuori centro e fuori fuoco, nel vano tentativo di racchiudere in quattro bordi la sconclusionata vitalità della loro gioventù .E sullo sfondo la solita spiaggia affollata dalla variegata umanità vacanziera dell’ora di pranzo: le famiglie di tedeschi obesi alle prese con i loro tupperware di pastasciutta, le ronde di ragazzotti arrapati in cerca di qualche facile avventura, padri di famiglia annoiati dal caldo lanciare frisbee a figli come fossero cuccioli di labrador e via dicendo, un’accozzaglia di confusione che riempiva le foto di un’allegria colorata e di cui ti sembrava quasi di sentire il rumore.
E insieme a quelle decine di altre, ognuna a suo modo significativa nella sua memoria. Per lo più foto banali, o addirittura brutte, ma ognuna legata a momenti, racconti, memorie, che gli mettevano in volto quel sorriso venato di malinconia.

Quel muro di ricordi, alcuni vissuti, i più immaginati soltanto, gli davano la percezione di far parte di qualcosa che non aveva scelto, ma di cui percepiva di tanto in tanto l’importanza. Di appartenere a qualcosa di più grande, che non aveva uno scopo ne un fine, ma esisteva. “La nostra gente”, come era solita dire l’anziana nonna per identificare quella folla di parenti e amici che puntualmente si ritrovava a casa sua per le feste comandate. Non un qualcosa di cui andare consciamente orgogliosi, ma una sensazione soffusa che di tanto in tanto, lo aveva fatto sentire protetto, a casa.

Ma li in mezzo c’era anche lei. Non la vedeva più da una vita, storia passata e neanche di poco. Gli anni e la proverbiale acqua sotto i ponti avevano lavato via quella ferita e ora poteva anche scherzarci con gli amici o ripensarci su senza troppe malinconie. Ma quella foto di gruppo, al matrimonio del cugino Roberto, con lei che lo abbracciava stretto tra amici e familiari, lo infastidiva, come l’imbarazzo dei parenti nel parlarne anche dopo tanto tempo. Lei non faceva parte della sua gente, lo era stata, ma aveva preso un’altra strada. Nessun rimpianto, ma non meritava l’immanenza della parete, così come l’ex marito di zia Beatrice, fuggito dopo il matrimonio e gli antipatici cugini francesi che non si facevano mai sentire. Quella foto era un graffio, una macchia sopravvissuta alla damnatio memoriae della sua rabbia giovanile e lo infastidiva proprio in quanto tale. Non c’era rimpianto, ne tristezza, solo il ricordo di momenti belli avvelenati dalle menzogne, che gli ricordavano quando per la prima volta si era sentito stupido.

Ma quella sensazione acidula che gli punzecchiava li stomaco si perdeva dopo pochi attimi nella distesa di sguardi che popolava la parete. Così, ogni volta che saliva quella scala, soffermandosi senza quasi voler incrociare lo sguardo con nessuno di loro, coglieva su quel muro l’insieme di volti e gesti, calici alzati e bambini in lacrime, torte nuziali e ginocchia sbucciate, coglieva tra la mediocrità di vite uguali a milioni di altre, l’unicità di quell’affresco, l’affetto che legava tutte le tessere di quel mosaico e che lo faceva sentire indefinitamente protetto. Come da bambino, quando frignando in cerca di attenzioni interruppe un brindisi ad un matrimonio. Allora la nonna lo prese in braccio, lo baciò sulla fronte e gli promise che il nonno lo avrebbe portato a fare un giro sulla sua lambretta, come faceva sempre quando prendeva un bel voto a scuola.

domenica 10 ottobre 2010

Storie di Mostri - Chimere Metalliche

Aprì gli occhi spaesato e passò qualche istante a mettere a fuoco il soffitto che pian piano gli mostrava il rosso intenso dei mattoni sotto l’intonaco scrostato. Abitava li ormai da qualche mese, ma non aveva ancora fatto l’abitudine a quella stamberga piena di odori acri e scricchiolii. Ma se la sera era troppo stanco per farci caso, al risveglio ne aveva a mala pena il tempo. Appena qualche attimo per abituarsi all’aria pungente del mattino prima di sollevare la coltre impolverata di coperte, vestirsi in poche mosse e consumare la solita misera colazione: pane vecchio inzuppato nel latte di cui si riempiva la bocca prima di mettersi in cammino, continuando a masticare e deglutire quella poltiglia per i primi metri del tragitto sulla la battigia verso lo stabilimento.
Quel lungo tragitto sulla sabbia umida era il suo momento perfetto. Pur mantenendo un passo deciso per non arrivare tardi al lavoro, la ciclica carezza della risacca sulla sabbia era l’unico momento delle sue giornate che gli dava la serenità per riflettere su se stesso, dare una forma ai vaghi sogni che il suo stanco sonno gli suggeriva e cercare un modo per renderli un po’ più reali.
L’idea di partire ce l’aveva sempre avuta, fin da piccolo; la perenne inquietudine faceva parte del suo carattere, ma solo coll’approssimarsi dell’età adulta e le delusioni che si accumulavano ad ogni passo avanti verso una qualche idea di felicità, aveva realizzato che l’unico modo per ampliare l’orizzonte che ogni anno gli si stringeva innanzi era rivolgersi al mare e alle mille opportunità che la grande città offriva al di là di esso.
Non c’era più nulla che lo legasse a quella terra che in passato aveva amato e che sentiva parte di sé. Non la famiglia, ne gli amici e nemmeno l’amore. Ragazze ne aveva avute, ma il furore e la passione dei primi anni avevano lasciato il posto ad una soffusa malinconia, una mancanza di qualcosa di indefinito, che pian piano si era trasformata in niente. Niente, questo provava, e l’idea di partire rappresentava l’ideale medicina a questo male indistinto che lo turbava.
L’imponente battello a vapore che attraccava ogni settimana al molo e di cui aveva intravisto solo la maestosa sagoma attraverso la nebbia del primo mattino, era diventata l’ossessione che riempiva le sue notti e colorava i suoi pensieri. Per il resto non poteva che affidarsi alla sua immaginazione, visto che della città non aveva potuto osservare che qualche foto sbiadita su qualche vecchia rivista. Le luci giallastre dei lampioni o il mosaico di pietre lucenti che impreziosiva la piazza del mercato, erano frutto di racconti e immaginazione, ma gli davano un vigore che non poteva essere più concreto e che influenzava persino il suo modo di camminare sulla sabbia bagnata. Sapeva che se voleva lasciare l’isola per il continente, doveva racimolare abbastanza soldi per il viaggio, ma sapeva anche che solo lavorando allo stabilimento avrebbe raccolto i soldi in tempo.
Camminando in questa densa coltre di pensieri quell’ora,  la più agognata del giorno, letteralmente gli scivolava via tra le dita, lasciandolo ogni mattina, alle 6.55 in punto, immobile col naso all’insù ad osservare il maestoso squallore della sua quotidiana meta, lo stabilimento.
L’imponente struttura, un ammasso di cemento e travi metalliche che offendeva il paesaggio e decorava il cielo di  una malsana ovatta grigiastra, era uno dei complessi industriali più importanti della zona e dava lavoro all’intera regione in tempi in cui l’agricoltura non garantiva più sicurezze e i pochi che continuavano ad allevare bestiame venivano considerati alla stregua dei pazzi che affollavano il manicomio cittadino, abitato ormai più di povertà che di pazzia.
Ogni mattina la stanca cerimonia che si ripeteva era la medesima: un sospiro sconsolato, pochi istanti per indossare la tuta blu che lo accomunava ai compagni di reparto, i tappi di cera per rendere sopportabile quel trambusto metallico e via alle presse, per la precisione la pressa numero 13 del capannone C, la “sua” pressa.
La parola chiave in quel lavoro era “ritmo”, ma non il ritmo armonioso e scanzonato delle danze che animavano i pub del paese alla sera, ma un ritmo meccanico, teso, impersonale. Il suo ruolo era quello di abbassare a tempo la pesante leva che faceva crollare la pressa su un pezzo di metallo grezzo, che un garzone sistemava accuratamente con un paio di grosse pinze. Dopo lo schianto il garzone recuperava il pezzo fumante che lo schianto aveva creato. Dopo quasi otto mesi a ripetere lo stesso banale gesto, quella ritmica danza a distanza era diventata quasi una seconda natura, che tuttavia non gli permetteva  di rilassarsi o pensare ad altro. Aveva ancora ben stampato in mente il giorno in cui uno del suo reparto, un tale di cui non si ricordava neppure il nome da quant’era insulso, aveva abbassato la leva qualche secondo troppo presto. Sonno, distrazione, qualche correzione di troppo nel caffè mattutino, nessuno aveva indagato il motivo di quell’errore, ma queste cose non hanno mai un motivo, succedono e basta. La scena che non riusciva a scordare aveva i connotati grotteschi di un sogno di ubriaco. Le grida, ovattate dalla cera dei tappi, di quel povero garzone che stringeva con la mano quel moncherino bruciacchiato scartando come un cavallo imbizzarrito, le corse convulse delle tute blu che gli si facevano appresso in una coreografia scoordinata e sgradevole. La leggera nausea che la vista di quel pastone di sangue e olio emulsionante gli aveva procurato. Non che provasse pena per quel ragazzo dalla vita spezzata, o che lo turbasse il rimorso dell’innominato collega, ma quell’avvenimento gli aveva fatto realizzare una consapevolezza che da mesi rimuginava, ma a cui non era ancora riuscito a dare forma.
Quando infatti la mattina successiva un nuovo garzone si presentò entusiasta per fare coppia con lui, realizzò ciò che in mesi di lavoro non aveva avuto lo spirito di cogliere: ognuno di loro non era altro che un ingranaggio tra gli ingranaggi, un minuscolo componente fondamentale, ma facilmente sostituibile, di una catena di montaggio di carne e metallo.  Per quanto schifoso fosse il lavoro, sgradevoli i colleghi, oppressori i padroni, doveva ringraziare la buona sorte per aver avuto anche solo la possibilità di vivere dignitosamente, di intravedere ancora in lontananza i propri sogni, di avere pane in tavola ogni giorno. Le tragedie, gli incidenti, gli infortuni, per quanto terribili, erano ormai diventati parte integrante della vita dello stabilimento, i più sensibili se ne andavano dopo poche settimane, gli altri sopravvivevano masticando cinismo e tirando a campare.
Lui aveva accettato tutto ciò senza esitazioni, rinunciato a tutto per imbarcarsi verso uno sfocato obiettivo, aveva lasciato la sua famiglia nella serena povertà della campagna per vivere tra un ammasso di muri fatiscenti a buon mercato, solo per poter stare più vicino possibile allo stabilimento, il suo lasciapassare per la felicità.
Ma ciò che ancora non era in grado di capire, ciò che non riusciva ad ammettere neanche a se stesso, era che la chimera lontana della grande città, era diventato l’unico stimolo che lo spingeva ad alzarsi la mattina e spendere i propri trent’anni tra sudore e metallo. Senza che se accorgesse la giostra della sua giovinezza aveva finito il suo giro e lui si ritrovava a vivere in un imbroglio celato. Il fine si era fatto mezzo e viceversa, senza accorgersene era passato dall’affrontare col sorriso quel mostro metallico per il suo obbiettivo,  ad ispirarsi a quel sogno lontano per riuscire ad andare al lavoro. Questione semplice di prospettive, mastodontici dettagli che le misere ore sulla battigia non erano sufficienti per riuscire a focalizzare. Tutta colpa di quel mostro d’acciaio troppo vicino per poter esser messo a fuoco per ciò che era in realtà. O forse di quella città troppo lontana per poter essere anche solo avvistata all’orizzonte. O più semplicemente della sua incapacità di ammettere a se stesso che i sogni ingenui di ragazzo avevano lasciato posto alla spietata quotidianità di un adulto…

venerdì 20 agosto 2010

Cronache di Mostri - Ritratto di Famiglia

Erano mesi che non si parlava di nient’altro che di quella foto. L’indomani sarebbe finalmente arrivato Monsieur Giraldi, il famoso fotografo. Si diceva che stava arrivando da lontano, da oltre il confine; d’altronde era uno dei più bravi fotografi in circolazione, aveva studiato a Ginevra, era normale che si facesse desiderare per qualche giorno. Dicevano che fosse così bravo che nei suoi ritratti gli stupidi sembrassero professori e i mostri non si distinguessero dai normali. Mai come quell’anno la foto di gruppo della compagnia, quella che sarebbe servita per i posteri, ma soprattutto per i cartelloni da affiggere in giro per il paese, aveva sollevato aspettative e tensioni.

Man mano che il fatidico giorno si avvicinava, una sorta di velato fervore aveva invaso le tende e le roulotte del campo. Lo potevi avvertire dal brusio continuo, specie durante le pause pranzo, dove solitamente dominavano il rumore di stoviglie sulla latta dei piatti o alla peggio qualche rutto o grugnito dei meno avvezzi al vivere civile. Le donne, anche quelle più brutte, colte d’improvvisa e irrefrenabile vanità, passavano le ore libere a scambiarsi consigli e belletti e provarsi i vestiti più improbabili. Tutto il campo era invaso da odori mai sentiti, un perenne brusio di chiacchiere e dall’operoso viavai di nani e ballerine, uomini e bestie, mostri e normali. Ma se i “normali” allenavano con lena la loro vanità in attesa del grande evento, i “mostri” non erano da meno, anche se l’effetto era assai diverso: non stupiva nessuno, infatti, che Ursus l’uomo d’acciaio avesse intensificato i suoi allenamenti nell’ultimo periodo e che passasse i pomeriggi sotto il sole per prendere colore; o che Magda, la cavallerizza di Algeri, aspettasse con trepidazione i vestiti di seta che aveva ordinato ad un mercante giù al sud e studiasse le proprie facce allo specchio in attesa del grande giorno. Ma quando si trattava dei mostri, la vanità assumeva loro malgrado contorni grotteschi, o peggio malsani. Giobbe il moncherino umano, da sempre a disagio con la propria immagine, passava le giornate affogando l’angoscia nel bourbon, per poi farsi accompagnare da qualche inserviente a farsi dire quant’era bello per pochi spiccioli da qualche prostituta del porto.

Le teste di cono, in gruppo come al solito, erano andate al ruscello con la vecchia Ester. Non gli faceva bene tutto quel clima di attesa, finivano per passare tutto il giorno a litigare e questo non giovava agli spettacoli. La settimana prima Bruto, il più piccolo di loro, aveva ferito per errore una bambina in prima fila per prendergli  il cappellino e solo l’intervento del proprietario, il signor Lodz, aveva evitato che le cose si mettessero male. Erano bastate poche studiate parole di quel piccolo diavolo dell’eloquio per mettere a tacere ogni dissenso. Egli sapeva di non poter punire o sgridare eccessivamente quei piccoli scherzi della natura: erano mostri spaventosi, ma avevano pur sempre l’animo di bambini viziati, e quello che veniva chiesto loro di fare sul palco andava contro il suo concetto di dignità umana. Ma Lodz era anche ben conscio che la “dignità umana” non gli pagava le spese di quell’enorme baraccone chiassoso, così aveva riposto nel taschino ogni scrupolo, com’era solito fare da quando svolgeva quella professione.

In molti erano preoccupati per l’umore di miss. Apollonia, la venere dei due mondi. I tempi in cui la sua bellezza abbagliava le folle erano un ricordo lontano e i suoi spettacoli si reggevano ormai solo sulla sua fama e l’abilità nel circuire gli uomini. Nessuno come lei sapeva tenere sulla corda quei bifolchi eccitati che si accalcavano sotto il palco solamente con l’attesa stessa del gesto, della mossa, di quel lembo di carne che immaginavano da settimane. Ma sotto la sua maestria ben poco era rimasto. La pelle di seta era divenuta pergamena, rinsecchita da anni di fondo tinta da quattro soldi e vita di strada. I capelli, ormai increspati e rovinati dal sapone, erano perennemente raccolti in una crocchia e coperti da pesanti parrucche. Ma malgrado l’inesorabile sfaldarsi della sua bellezza, Apollonia manteneva un portamento maestoso, regale, che riusciva ancora ad eccitare i poveri paesani più di un seno abbondante o un sedere tornito. Ma il suo umore da qualche settimana si era fatto cupo, e in molti erano in pena per lei.
La sua grande paura era che il tempo le portasse via anche questa magia, che il ritratto mostrasse a tutti il coniglio dentro il cappello e che il vecchio Lodz la sostituisse con qualche prostituta da quattro soldi raccattata in un bordello al Sud, come se ne vedevano sempre più spesso negli ultimi tempi. Ormai il talento per il ballo, il canto o la capacità tenere in pugno il pubblico erano stati sostituiti in blocco dalla disponibilità di mostrarsi. Ella sapeva che il tempo prima o poi le avrebbe chiesto il conto e temeva che quel momento sarebbe coinciso col giorno di quel maledetto ritratto.

E finalmente il giorno tanto atteso. Il grande Giraldi arrivò in un vortice di polvere su di una carrozza scura, semplice, ma elegante, trainata da due stalloni dalle movenze stanche. Era un omino paffuto dalla faccia simpatica e le movenze decise. Un paio di occhiali da vista tondi e spessi, sul naso, pochi arruffati capelli corvini che facevano capolino disordinati da sotto una coppola marrone. I suoi modi erano cordiali, ma deferenti, il che metteva in imbarazzo ogni possibile interlocutore. Chiedeva sempre con cortesia, consapevole che bastava la fama che lo precedeva a garantirgli che ognuno facesse come voleva. Quando mise tutti in posa nel piazzale polveroso davanti al tendone, spiegò, sforzandosi di tenere un tono di voce squillante, come tutti avrebbero dovuto restare immobili per un minuto e che lui avrebbe contato a ritroso da sessanta a zero per dare il tempo. Partì il conto alla rovescia e la mente di ognuno fu invasa di pensieri. Ognuno pensava a se stesso e l’incedere di quei numeri faceva crescere dubbi e rimpianti: “Sessanta, Cinquantanove… “Starò bene?”, “Avrò scelto l’abito giusto?”, “ventiquattro, ventitre… “Meglio che sorrida o che faccia un espressione risoluta?”, “cinque, quattro…”, “Avrò fatto bene a tenere il cappello?” “STOP!”. Era fatta.

Il giorno successivo l’agognato ritratto fu appeso sopra la zona ristoro e si animarono le discussioni:. La delusione di quasi tutti fu grande, nella foto ognuno riconobbe se stesso, ma spogliato di tutte le aspettative e le fantasticherie che settimane di attesa avevano alimentato. I mostri erano mostri, i brutti non parevano certo essere migliorati ed anzi anche i più attraenti apparivano artificiosi e innaturali. E poi erano banali, ognuno di loro era se stesso, ma avrebbe potuto essere chiunque altro. A parte i mostri, ovviamente. Le teste di cono ridevano soddisfatte, per lo loro già il riconoscersi in un ritratto era fonte di gioia. Giobbe bofonchiava mezze parole fumando un sigaro, celando a fatica la propria soddisfazione: senza braccia e gambe, piccolo, scuro e orribile, era quello che risaltava più di tutti in quel corale affresco di mediocrità. Tra il borbottare insoddisfatto dei manovali e gli acuti strepiti delle fanciulle deluse, solo una "normale", Miss. Apollonia se ne stava immobile nella sua elegante vestaglia di seta e non proferiva parola Fissò intensamente il ritratto per diversi minuti, poi si girò con un gesto lento per andarsene. Un sorriso soddisfatto e solare le incorniciava il volto mentre si dirigeva verso la roulotte di Lodz per farsi offrire un bicchierino.

lunedì 16 agosto 2010

Route A4 - La Giungla d'Asfalto

Ogni mattina un pendolare apre gli occhi, e sa che dovrà rincorrere i propri ritardi fino al fatidico timbro. Ma per farlo deve farsi strada, ogni maledetto giorno, nella giungla d’asfalto, il più spietato dei nemici. E’ qui che sono diventato un uomo, sull’A4, l’autostrada più trafficata d’Italia, dove ogni chilometro ti insegna qualcosa, ogni piazzola di sosta ha la sua storia da raccontare. Ma in autostrada devi imparare a starci. E’ una questione di onore e rispetto, di riuscire a riconoscere quando puoi fare l’arrogante e quando devi stare al tuo posto, perchè i cavalli che hai davanti al naso non ti permettono niente di meglio che una mediocre corsia di destra. 
E’ una sorta di migrazione metallica verso una terra promessa per ognuno diversa. Ci sono elefanti autoarticolati, col loro nervoso, pesante incedere di redbull e caffeina, spider feline che graffiano l’asfalto, ostentando cavalli e tamarraggine. Ingombranti Furgoncini austroungarici, goffi orsi a quattro ruote, gazzelle con la sirena dall’accento partenopeo. Un ecosistema perfetto in cui devi trovare il tuo posto, cacciatore o preda, arrogante o remissivo, guidatore accorto o virtuoso del sorpasso azzardato, con un solo grande obiettivo in testa: arrivare al lavoro in orario. In questa eterna lotta contro il tempo e l’asfalto, molte sono le sfide che devi affrontare: sfide di intelligenza, di carisma, di sopportazione del sonno. 
La prova più dura, detta del sorpasso arrogante è un po’ come la notte nella foresta per i giovani spartani. Tu con la tua Punto, dignitosa, onesta, un battito di ciglia sopra la mediocrità di un utilitaria, ma piena di orgoglio. Ti trovi davanti il solito SUV, chessò, un BMW X4, potente, elegante, arrogante. Lo stronzo che lo guida, sigaretta in bocca e telefono all’orecchio, si sbraccia vistosamente nel fervore della chiamata. Velocità: 102 km/h. In ritardo come di costume, prendi coraggio, freccia a sinistra e via. Il tuo sorpasso è una lenta agonia. Lo stronzo, appena avverte con la coda dell’occhio un’auto di così basso rango osare affiancarlo, spegne febbrilmente la sigaretta, mette la cuffie per il telefono e si appresta a farti mangiare la polvere, a riaffermare la sua supremazia sociale prima ancora che virile. E’ il momento decisivo. Cosa fare in questi casi lo impari solo dal libro non scritto della strada. Coraggio, abilità e sfrontatezza ti riempiono il petto e diventi la persona che hai sempre sognato. Affianchi lo stronzo che dapprima incrocia il tuo sguardo con ostentata superiorità. Tu sostieni lo sguardo, abbassi leggermente gli occhiali da sole e abbozzi un sorrisino di sfida. Il bastardo dissimula per quanto può, ma il viso paonazzo e la vena che gli pulsa nervosa sul collo ti dicono che hai fatto centro. Dicevamo, il sorpasso dura una vita. Lui che tenta di far correre i cavalli, ma un autoarticolato turco, con autista in evidente debito di sonno, fiaccano ogni tentativo di sorpasso a destra. Tu che in due, tre eterni minuti, ti porti alla pari e lentamente lo superi, mantenendo la paresi di quel sorriso che tanto lo infastidisce. Come l’hai superato, lui ti si mette ovviamente dietro e, ormai accecato dall’ira, ti fa i fari standoti a cinquanta centimetri dall’auto. 
Qui il piano si fa più complesso e richiede conoscenze tecniche, tenuta di nervi e una sottile psicologia: ti attesti sui 130 km/h, in modo da essere legalmente inattaccabile e ogni tanto dai un leggero colpetto al freno, in modo da indurgli la convinzione che potresti prima o poi frenare sul serio. Poi visto che i suoi fari, puntati come due luminosi occhi accusatori sulla tua nuca, ti mettono a disagio, sfrutti la differente altezza delle due auto per ricacciaglieli in faccia con sapiente uso dello specchietto retrovisore. Allora, e solo allora, quando il merdoso guidatore di SUV, accecato dall’ira, schiumante rabbia da ogni orifizio, starà pensando ad ogni stratagemma legale e illegale per superarti, tu rallenta ancora, diciamo 90 all’ora, rimetti la freccia a destra e infilati nel primo autogrill, ma prima di entrare volgi lo sguardo alla tua nemesi: la rabbia cieca ha lasciato posto a un misto di umiliazione e spaesamento. E’ sconfitto, umiliato da un’auto che avrà un decimo della sua cilindrata, beffato da un ragazzetto imberbe con una dichiarazione dei redditi da terzo mondo. Non potrà più superarti, ne oggi, ne forse mai più; la sua giornata, la sua intera settimana sarà una merda e se la prenderà col primo sottoposto che incrocerà entrando in ufficio. Per te è un’ottima giornata, ti senti un po’ come un Robin Hood della A4, l’autostima è alta e sei pure in leggero anticipo. 
Parcheggi, prendi portafoglio, telefono, chiudi l’auto con gesto sicuro ed entri nell’oasi dei viaggiatori, il paese dei balocchi degli automobilisti, entri in autogrill…

-CONTINUA-


Cronache di Mostri - Pugni sulla porta

“Dai Ma’, sono io.. Apri la porta! Passavo di qua e fuori piove così forte, così ho pensato di venire a trovarti. Lo so, lo so, non serve che dici niente. Non voglio niente da te, lascia solo che mi riposi un momento e poi me ne vado, promesso.

Ti ricordi ancora di me mamma? Se non ti ricordi posso capirti: ero solo un bambino l’ultima volta che ci siamo visti. La polizia mi cercava, avevo picchiato quel tale e non sapevo dove nascondermi. Avevo tanta paura, così tu mi hai portato via e mi hai messo su una barca per chissà dove. Ti sei girata e hai cominciato a camminare, ti ho visto scomparire nella nebbia del molo, mentre la mia nave prendeva il largo.
Ero solo e confuso, mamma… così ho usato il talento che Dio mi ha dato, la mia rabbia. Fare il marinaio, lo scaricatore non faceva per me, così ho iniziato a combattere al porto. Non erano le mie mani che mi davano da mangiare, ma i miei pugni. Combattere era la mia vita, mia casa, il mio lavoro.

Ad ogni porto loro mi davano i loro soldi e io gli davo la mia rabbia. Mi mettevano di fronte disperati, proprio come me, e io li facevo crollare tutti a terra come sacchi di sabbia. Mi veniva facile come respirare, ero bravo. Avresti dovuto vedermi, mamma, quando ho combattuto col campione. Che momento. Pioveva come adesso, c’era fango dappertutto. Eravamo in un tendone fradicio che ci copriva a malapena, ci pestavamo tra una folla che urlava i nostri nomi. Ogni tanto mi sembra ancora di sentire il sapore dolciastro del sangue che mi riempiva la bocca e che si mischiava col fango. Pestava forte il campione. Mi ruppe anche una mascella, il bastardo, ma quando ebbi l’occasione schivai il suo destro e lo spinsi per terra con una spallata. Mi misi sopra di lui e lo colpii con tutta la violenza che mi era rimasta. Continuavo a colpirlo, la campana suonava e io continuavo a colpirlo. Potevo sentire sulle nocche la pelle squarciarsi, vidi il grigio dell’osso. Ma continuai a colpire finché non smise di muoversi. Solo allora, ansimando nel sangue e nel fango, mi resi conto che ce l’avevo fatta. Mamma ero il campione. Avresti dovuto vedermi, saresti stata così orgogliosa! Da allora la mia vita cambiò, arrivarono i soldi, quelli veri, e le donne cominciarono a ronzarmi intorno. Belle donne, coi loro abiti rossi, sempre accompagnate dagli uomini che scommettevano su di me, con le scarpe lucide e i vestiti di seta. Loro mi davano i verdoni in cambio della mia rabbia, io li davo alle loro donne per un’illusione, senza vergogna. Ho fatto ciò che dovevo e l’ho fatto per sopravvivere, ho avuto la mia parte e non ho rimpianti.

E poi il combattimento all’arsenale… Le presi da un tale grosso come un dannato orso. Lo picchiavo e quello restava in piedi e continuava a guardarmi con quegli occhi tristi. Colpiva pesante e io schivavo, schivavo senza sosta. E’ bastato un solo pugno sulla punta del mento e mi sono ritrovato per terra come in un sogno, a guardarlo immobile, senza poter far nulla, mentre l’arbitro mi contava e alzava il suo braccio al cielo. La sua gioia malinconica mentre io vomitavo le budella, il mio sguardo che si anneriva, mettendo fine a quel brutto sogno. Ma presi comunque bei soldi e questo è l’importante, è così che va nel mio mondo, le dai e le prendi finché uno dei due non resta in terra. Ogni uomo gioca a questo gioco ed è l’unico che ho mai imparato. Se ne conosci uno differente mamma, ti prego insegnami, dimmi qual è.

Lo so, stenti a riconoscermi, ero solo un bambino quando ci siamo lasciati. La mia voce ora è quella di un uomo, ma ho ancora i tuoi occhi scuri, ti prego apri la porta e guardami un’ultima volta. Non ti chiedo un bacio o un sorriso, apri solo la porta e lascia che mi riposi per qualche minuto. Non sono più quello di un tempo, quello dei miei cruenti racconti. La mia vita è la stessa, ma la rabbia è svanita con la pioggia. Così vago per il paese e mi batto con chi incrocia il mio cammino. Mi piace dire sempre “Se sei meglio di me fatti avanti! Mostrami i tuoi soldi e confessami i tuoi peccati!” Spero sempre di impressionare qualcuno, perché ormai i miei pugni non fanno più male come un tempo. Mamma fammi entrare adesso, ti prego, non serve che dici nulla, non ti chiedo più nulla, lasciami riposare un momento e mi rimetterò in marcia.

Così stanotte potrò tornare alla mia vita di sempre. Andrò giù al cantiere, disegnerò col piede un cerchio nella polvere e inviterò qualcuno a sfidarmi. C’è sempre qualche disperato in cerca di soldi facili. Io lo guarderò dritto negli occhi, gli lancerò la mia sfida e studierò i tagli, le cicatrici e il dolore impresso sul suo corpo, quello che racconta chi sei e che ne il tempo, ne gli uomini possono cancellare. Poi fingo di colpire, schivo a sinistra e lo centro sul mento. Il solito vecchio gioco".