domenica 10 ottobre 2010

Storie di Mostri - Chimere Metalliche

Aprì gli occhi spaesato e passò qualche istante a mettere a fuoco il soffitto che pian piano gli mostrava il rosso intenso dei mattoni sotto l’intonaco scrostato. Abitava li ormai da qualche mese, ma non aveva ancora fatto l’abitudine a quella stamberga piena di odori acri e scricchiolii. Ma se la sera era troppo stanco per farci caso, al risveglio ne aveva a mala pena il tempo. Appena qualche attimo per abituarsi all’aria pungente del mattino prima di sollevare la coltre impolverata di coperte, vestirsi in poche mosse e consumare la solita misera colazione: pane vecchio inzuppato nel latte di cui si riempiva la bocca prima di mettersi in cammino, continuando a masticare e deglutire quella poltiglia per i primi metri del tragitto sulla la battigia verso lo stabilimento.
Quel lungo tragitto sulla sabbia umida era il suo momento perfetto. Pur mantenendo un passo deciso per non arrivare tardi al lavoro, la ciclica carezza della risacca sulla sabbia era l’unico momento delle sue giornate che gli dava la serenità per riflettere su se stesso, dare una forma ai vaghi sogni che il suo stanco sonno gli suggeriva e cercare un modo per renderli un po’ più reali.
L’idea di partire ce l’aveva sempre avuta, fin da piccolo; la perenne inquietudine faceva parte del suo carattere, ma solo coll’approssimarsi dell’età adulta e le delusioni che si accumulavano ad ogni passo avanti verso una qualche idea di felicità, aveva realizzato che l’unico modo per ampliare l’orizzonte che ogni anno gli si stringeva innanzi era rivolgersi al mare e alle mille opportunità che la grande città offriva al di là di esso.
Non c’era più nulla che lo legasse a quella terra che in passato aveva amato e che sentiva parte di sé. Non la famiglia, ne gli amici e nemmeno l’amore. Ragazze ne aveva avute, ma il furore e la passione dei primi anni avevano lasciato il posto ad una soffusa malinconia, una mancanza di qualcosa di indefinito, che pian piano si era trasformata in niente. Niente, questo provava, e l’idea di partire rappresentava l’ideale medicina a questo male indistinto che lo turbava.
L’imponente battello a vapore che attraccava ogni settimana al molo e di cui aveva intravisto solo la maestosa sagoma attraverso la nebbia del primo mattino, era diventata l’ossessione che riempiva le sue notti e colorava i suoi pensieri. Per il resto non poteva che affidarsi alla sua immaginazione, visto che della città non aveva potuto osservare che qualche foto sbiadita su qualche vecchia rivista. Le luci giallastre dei lampioni o il mosaico di pietre lucenti che impreziosiva la piazza del mercato, erano frutto di racconti e immaginazione, ma gli davano un vigore che non poteva essere più concreto e che influenzava persino il suo modo di camminare sulla sabbia bagnata. Sapeva che se voleva lasciare l’isola per il continente, doveva racimolare abbastanza soldi per il viaggio, ma sapeva anche che solo lavorando allo stabilimento avrebbe raccolto i soldi in tempo.
Camminando in questa densa coltre di pensieri quell’ora,  la più agognata del giorno, letteralmente gli scivolava via tra le dita, lasciandolo ogni mattina, alle 6.55 in punto, immobile col naso all’insù ad osservare il maestoso squallore della sua quotidiana meta, lo stabilimento.
L’imponente struttura, un ammasso di cemento e travi metalliche che offendeva il paesaggio e decorava il cielo di  una malsana ovatta grigiastra, era uno dei complessi industriali più importanti della zona e dava lavoro all’intera regione in tempi in cui l’agricoltura non garantiva più sicurezze e i pochi che continuavano ad allevare bestiame venivano considerati alla stregua dei pazzi che affollavano il manicomio cittadino, abitato ormai più di povertà che di pazzia.
Ogni mattina la stanca cerimonia che si ripeteva era la medesima: un sospiro sconsolato, pochi istanti per indossare la tuta blu che lo accomunava ai compagni di reparto, i tappi di cera per rendere sopportabile quel trambusto metallico e via alle presse, per la precisione la pressa numero 13 del capannone C, la “sua” pressa.
La parola chiave in quel lavoro era “ritmo”, ma non il ritmo armonioso e scanzonato delle danze che animavano i pub del paese alla sera, ma un ritmo meccanico, teso, impersonale. Il suo ruolo era quello di abbassare a tempo la pesante leva che faceva crollare la pressa su un pezzo di metallo grezzo, che un garzone sistemava accuratamente con un paio di grosse pinze. Dopo lo schianto il garzone recuperava il pezzo fumante che lo schianto aveva creato. Dopo quasi otto mesi a ripetere lo stesso banale gesto, quella ritmica danza a distanza era diventata quasi una seconda natura, che tuttavia non gli permetteva  di rilassarsi o pensare ad altro. Aveva ancora ben stampato in mente il giorno in cui uno del suo reparto, un tale di cui non si ricordava neppure il nome da quant’era insulso, aveva abbassato la leva qualche secondo troppo presto. Sonno, distrazione, qualche correzione di troppo nel caffè mattutino, nessuno aveva indagato il motivo di quell’errore, ma queste cose non hanno mai un motivo, succedono e basta. La scena che non riusciva a scordare aveva i connotati grotteschi di un sogno di ubriaco. Le grida, ovattate dalla cera dei tappi, di quel povero garzone che stringeva con la mano quel moncherino bruciacchiato scartando come un cavallo imbizzarrito, le corse convulse delle tute blu che gli si facevano appresso in una coreografia scoordinata e sgradevole. La leggera nausea che la vista di quel pastone di sangue e olio emulsionante gli aveva procurato. Non che provasse pena per quel ragazzo dalla vita spezzata, o che lo turbasse il rimorso dell’innominato collega, ma quell’avvenimento gli aveva fatto realizzare una consapevolezza che da mesi rimuginava, ma a cui non era ancora riuscito a dare forma.
Quando infatti la mattina successiva un nuovo garzone si presentò entusiasta per fare coppia con lui, realizzò ciò che in mesi di lavoro non aveva avuto lo spirito di cogliere: ognuno di loro non era altro che un ingranaggio tra gli ingranaggi, un minuscolo componente fondamentale, ma facilmente sostituibile, di una catena di montaggio di carne e metallo.  Per quanto schifoso fosse il lavoro, sgradevoli i colleghi, oppressori i padroni, doveva ringraziare la buona sorte per aver avuto anche solo la possibilità di vivere dignitosamente, di intravedere ancora in lontananza i propri sogni, di avere pane in tavola ogni giorno. Le tragedie, gli incidenti, gli infortuni, per quanto terribili, erano ormai diventati parte integrante della vita dello stabilimento, i più sensibili se ne andavano dopo poche settimane, gli altri sopravvivevano masticando cinismo e tirando a campare.
Lui aveva accettato tutto ciò senza esitazioni, rinunciato a tutto per imbarcarsi verso uno sfocato obiettivo, aveva lasciato la sua famiglia nella serena povertà della campagna per vivere tra un ammasso di muri fatiscenti a buon mercato, solo per poter stare più vicino possibile allo stabilimento, il suo lasciapassare per la felicità.
Ma ciò che ancora non era in grado di capire, ciò che non riusciva ad ammettere neanche a se stesso, era che la chimera lontana della grande città, era diventato l’unico stimolo che lo spingeva ad alzarsi la mattina e spendere i propri trent’anni tra sudore e metallo. Senza che se accorgesse la giostra della sua giovinezza aveva finito il suo giro e lui si ritrovava a vivere in un imbroglio celato. Il fine si era fatto mezzo e viceversa, senza accorgersene era passato dall’affrontare col sorriso quel mostro metallico per il suo obbiettivo,  ad ispirarsi a quel sogno lontano per riuscire ad andare al lavoro. Questione semplice di prospettive, mastodontici dettagli che le misere ore sulla battigia non erano sufficienti per riuscire a focalizzare. Tutta colpa di quel mostro d’acciaio troppo vicino per poter esser messo a fuoco per ciò che era in realtà. O forse di quella città troppo lontana per poter essere anche solo avvistata all’orizzonte. O più semplicemente della sua incapacità di ammettere a se stesso che i sogni ingenui di ragazzo avevano lasciato posto alla spietata quotidianità di un adulto…