giovedì 3 marzo 2011

Uccido!

 
 
Io uccido. Questo faccio. Togliamoci subito dall’imbarazzo dell’ambiguità. Intendiamoci, faccio molte altre cose: ho un lavoro, i miei hobby e le mie amicizie, una vita per nove decimi normale. E’ quel decimo che mi differenzia, che mi eleva o mi abbassa, secondo morale, da te e da tutti gli altri.
Ti fermo subito. Niente genitori violenti, non mi stupravano quand’ero piccolo, non sono stato abbandonato. Niente di tutto ciò. Ho avuto un’infanzia banale, ordinaria. Mi sono rotto una caviglia, innamorato, ho fumato le canne. Ho pianto e riso fino alle lacrime. Proprio come te. Mi sono ubriacato, ho vomitato, fatto cazzate. Forse meno di quanto non lo abbia fatto tu.
 
Il problema, se così vogliamo chiamarlo, è un altro. E’ la noia che mi frega, come è sempre stato. Una noia aggressiva che mi prende, che mi ha sempre preso quando le cose andavano bene, quando non avevo preoccupazioni banali che occupassero la mia mente e le mie giornate. In quei momenti ho bisogno di stare male, anzi ho bisogno che qualcuno stia male al posto mio. Una predisposizione che ho sempre avuto, una sorta di vaga tendenza alla depressione che fino a un certo punto della mia vita non riuscivo a sfogare. Potevo solo reprimerla. E a reprimere le cose, si sa, prima o poi si scoppia. Per fortuna sono sempre stato bravo a mascherare i miei stati d’animo, evitando fastidi inutili come l’empatia, o la compassione del prossimo, o magari di finire in analisi. L’ho gestita da solo e da solo ho trovato la soluzione, una delle cose che mi rendono più orgoglioso di me stesso.
 
Non mi piace il dolore, non sono quel tipo di persona. Non sono particolarmente violento, o incline alla collera e non mi impressiona il sangue, ma non sono neanche tipo da sfregiarsi, infilzarsi o cose così. Ho bisogno di vedere qualcuno star male, ringhiare come un cane in trappola, poi farsi collaborativo, disperato, quindi rassegnarsi. Diventare docile e coltivare la vana speranza di una qualche salvezza. Sono sadico, questo si, in un certo senso. Ma questo immagino l’avessi intuito.
 
E poi tagliare la carne. Che goduria. Incidere la pelle olivastra di quella bellissima ragazza portoghese con cui ho flirtato in discoteca qualche settimana fa, non puoi capire come ti fa sentire bene. E’ un piacere estetico, ti da la sensazione che il mondo abbia un senso. Un incisione delicata su quel seno burroso ed ecco il sangue fare capolino timido, e poi sgorgare sempre più deciso sotto la coppa, sulla pancia, fino al monte di venere. Naturale come ha da essere, come un fiume che scorre fino al mare. E lei che mi fissa con gli occhi spalancati a implorare neanche lei sa cosa, la vita, la morte, o forse una qualche pace. E tu che senti che soffre come te, più di te, che tu puoi continuare a vivere la tua vita e lei no, perché l’hai deciso tu. Le ho tagliato la gola con un gesto armonioso, quasi ad accarezzarla, poi l’ho guardata gorgogliare nel suo sangue e l’ho baciata sulle labbra. Bacio tutti quelli che uccido sulle labbra, uomini e donne. Non c’è niente di sessuale, è solo un commiato, sono persone che sento vicine, con cui condivido i miei momenti più intensi. Io li amo, per qualche ora li amo, poi ognuno per la sua strada.
 
Nella vita tutto sommato ho anche avuto fortuna. Ho la fortuna per esempio che mio padre di lavoro non faccia il postino o l’impiegato. Gestisce una discarica, un vecchio che ammassa immondizia in aperta campagna, un posto puzzolente, sporco e indesiderabile. Proprio come mio padre. Questo mi da lo spazio, il tempo e la tranquillità di passare la notte con i miei amanti, corteggiarli con calma, danzare con la loro sofferenza per ore sotto la luna. Posso prendermi il mio tempo ed assaporare queste sensazioni che la vita non sa darmi, giocare con la vita e la carne come un bambino con sabbia e paletta. Torno innocente per qualche ora e mi sento una creatura in pace con il creato. Di solito è dopo questi momenti, che mi monta una tristezza infinita, mi sento un miserabile. Un dolore fisico, puntuale, fortissimo, come se un diamante mi si fosse conficcato nella fronte. Il cervello mi esplode, il cuore accelera fino quasi a soffocarmi, la nausea mi contorce le budella. Dopo l’estasi arriva la sofferenza, cristallina anch’essa, pura.
 
Allora mi trascino a casa, mi faccio una doccia bollente e mi metto a letto. E lì piango, piango per ore fin quando non mi si asciuga il cervello, il cuore si stanca e lo stomaco collassa. Ed è allora, quando in corpo non ho più niente se non disperazione, che mi addormento e dormo, profondamente, senza sogni.
 
La mattina poi mi sveglio riposato e di buon umore. Eseguo il solito rituale della colazione: pancake, spremuta e una bella tazzona di caffè bollente. Metto il  mangime nella ciotola del gatto, esco di casa e ritorno, col sorriso sulle labbra, ai nove decimi di vita che ci hanno fatto incontrare.
 
E vado avanti qualche mese a vivere di rendita sulle emozioni, giocando a fare l’impiegato del mese o il figlio coscenzioso. Finché la noia non ritorna. Quella di cui ti ho parlato, che cresce e si espande inesorabile nel tempo. E io la tengo sotto controllo, mi tengo occupato e la ignoro. Però stasera, mia cara, non è così. Stasera io uccido.

mercoledì 2 marzo 2011

La Nostra Gente



Appoggiata con cura la lambretta sul cavalletto, restò qualche istante col naso al cielo ad ammirare l’inesorabile decadenza della facciata. Quel vecchio edificio spoglio, raggrinzito dal sole e da anni di incuria, manteneva tuttavia un aspetto robusto, familiare, non molto diverso da come se lo ricordava.

Inserì la chiave nella toppa e spintonò con forza il robusto portone che sbatté, cigolando ruggine su tutto il muro. Abbozzò un sorriso a mezza bocca e attraversò l’ingresso con passo deciso, salvo poi rallentare appena passato l’uscio. Camminando per l’ampio ingresso prese a indugiare su ogni dettaglio per provare a ricordare ciò che era cambiato da come se lo ricordava, così senza quasi accorgersene, arrivò alla  fine del corridoio, al piccolo atrio che dava sul piano di sopra, la sua meta. Anche se conosceva quella casa palmo a palmo fin da quando era bambino, gli metteva sempre un po’ di soggezione salire la scala che portava al piano di sopra. Era una vecchia scala di noce, tinteggiata di un bianco sporco, senza troppa perizia a dire il vero. Ma non era la scala la fonte di quella poco definita sensazione che gli scaldava lo stomaco e gli fiaccava le gambe. Sul lato destro, lungo tutta la parete, erano appese, ordinatamente disposte una accanto all’altra, le foto di famiglia, di entrambi i rami della famiglia. Decine e decine di ritratti, foto di gruppo, consunte foto giallastre, polaroid scurissime, che riempivano ogni centimetro della ridicola carta da parati che decorava l’enorme parete.

C’era la foto del Signor Giancarlo, il precedente marito della nonna materna, morto in Russia nel millenovecento e qualcosa. Il più banale dei ritratti in posa prima della partenza per la leva. Lo sguardo tronfio e vagamente pieno di sé, ingiallito e reso più profondo di quanto in realtà non fosse dal facile fascino del seppia. Quella divisa di una taglia più grande, che sarebbe dovuta essere utile per essere imbottita nel freddo del fronte, ma che non l’aveva protetto dal destino e dalle cartucce. Una vita lontana e di cui tutto sommato non sentiva il peso, ma che un suo scopo ai suoi occhi l’aveva avuto: lo zio Gianni, emigrato in Svizzera grazie alle agevolazioni come orfano di guerra, aveva potuto farsi una famiglia, figli e nipoti e ora si godeva pacioso e sorridente la meritata pensione. Gli stava simpatico lo zio Gianni.

Poi le classiche foto di gruppo della famiglia di suo padre. Tutti sempre nella stessa posizione, foto dopo foto: lui e le sue cinque sorelle in posa in fila indiana, dalla più giovane al più vecchio. Quella che gli piaceva di più, scattata al quarantesimo compleanno della nonna, era piena di particolari che lo mettevano di buon umore. Le gemelle, due gocce d’acqua, vestite come sempre allo stesso modo, con un pacchiano maglione rosso a collo alto e la medesima buffa smorfia di fastidio: avevano il muso perché avevano appena litigato. Ora non sembravano più nemmeno parenti, ma continuavano a litigare futilmente come sempre. E le spalline imbottite, i pantaloni dalle forme e i colori più improbabili, lo sguardo assonnato di mio padre, tutto concorreva a rendere quella foto buffa.

O le foto delle vacanze al mare coi cugini, fatte quasi per gioco con le usa e getta che si trovavano nei fustini del detersivo. Improvvisati scatti corali, fuori centro e fuori fuoco, nel vano tentativo di racchiudere in quattro bordi la sconclusionata vitalità della loro gioventù .E sullo sfondo la solita spiaggia affollata dalla variegata umanità vacanziera dell’ora di pranzo: le famiglie di tedeschi obesi alle prese con i loro tupperware di pastasciutta, le ronde di ragazzotti arrapati in cerca di qualche facile avventura, padri di famiglia annoiati dal caldo lanciare frisbee a figli come fossero cuccioli di labrador e via dicendo, un’accozzaglia di confusione che riempiva le foto di un’allegria colorata e di cui ti sembrava quasi di sentire il rumore.
E insieme a quelle decine di altre, ognuna a suo modo significativa nella sua memoria. Per lo più foto banali, o addirittura brutte, ma ognuna legata a momenti, racconti, memorie, che gli mettevano in volto quel sorriso venato di malinconia.

Quel muro di ricordi, alcuni vissuti, i più immaginati soltanto, gli davano la percezione di far parte di qualcosa che non aveva scelto, ma di cui percepiva di tanto in tanto l’importanza. Di appartenere a qualcosa di più grande, che non aveva uno scopo ne un fine, ma esisteva. “La nostra gente”, come era solita dire l’anziana nonna per identificare quella folla di parenti e amici che puntualmente si ritrovava a casa sua per le feste comandate. Non un qualcosa di cui andare consciamente orgogliosi, ma una sensazione soffusa che di tanto in tanto, lo aveva fatto sentire protetto, a casa.

Ma li in mezzo c’era anche lei. Non la vedeva più da una vita, storia passata e neanche di poco. Gli anni e la proverbiale acqua sotto i ponti avevano lavato via quella ferita e ora poteva anche scherzarci con gli amici o ripensarci su senza troppe malinconie. Ma quella foto di gruppo, al matrimonio del cugino Roberto, con lei che lo abbracciava stretto tra amici e familiari, lo infastidiva, come l’imbarazzo dei parenti nel parlarne anche dopo tanto tempo. Lei non faceva parte della sua gente, lo era stata, ma aveva preso un’altra strada. Nessun rimpianto, ma non meritava l’immanenza della parete, così come l’ex marito di zia Beatrice, fuggito dopo il matrimonio e gli antipatici cugini francesi che non si facevano mai sentire. Quella foto era un graffio, una macchia sopravvissuta alla damnatio memoriae della sua rabbia giovanile e lo infastidiva proprio in quanto tale. Non c’era rimpianto, ne tristezza, solo il ricordo di momenti belli avvelenati dalle menzogne, che gli ricordavano quando per la prima volta si era sentito stupido.

Ma quella sensazione acidula che gli punzecchiava li stomaco si perdeva dopo pochi attimi nella distesa di sguardi che popolava la parete. Così, ogni volta che saliva quella scala, soffermandosi senza quasi voler incrociare lo sguardo con nessuno di loro, coglieva su quel muro l’insieme di volti e gesti, calici alzati e bambini in lacrime, torte nuziali e ginocchia sbucciate, coglieva tra la mediocrità di vite uguali a milioni di altre, l’unicità di quell’affresco, l’affetto che legava tutte le tessere di quel mosaico e che lo faceva sentire indefinitamente protetto. Come da bambino, quando frignando in cerca di attenzioni interruppe un brindisi ad un matrimonio. Allora la nonna lo prese in braccio, lo baciò sulla fronte e gli promise che il nonno lo avrebbe portato a fare un giro sulla sua lambretta, come faceva sempre quando prendeva un bel voto a scuola.