mercoledì 2 marzo 2011

La Nostra Gente



Appoggiata con cura la lambretta sul cavalletto, restò qualche istante col naso al cielo ad ammirare l’inesorabile decadenza della facciata. Quel vecchio edificio spoglio, raggrinzito dal sole e da anni di incuria, manteneva tuttavia un aspetto robusto, familiare, non molto diverso da come se lo ricordava.

Inserì la chiave nella toppa e spintonò con forza il robusto portone che sbatté, cigolando ruggine su tutto il muro. Abbozzò un sorriso a mezza bocca e attraversò l’ingresso con passo deciso, salvo poi rallentare appena passato l’uscio. Camminando per l’ampio ingresso prese a indugiare su ogni dettaglio per provare a ricordare ciò che era cambiato da come se lo ricordava, così senza quasi accorgersene, arrivò alla  fine del corridoio, al piccolo atrio che dava sul piano di sopra, la sua meta. Anche se conosceva quella casa palmo a palmo fin da quando era bambino, gli metteva sempre un po’ di soggezione salire la scala che portava al piano di sopra. Era una vecchia scala di noce, tinteggiata di un bianco sporco, senza troppa perizia a dire il vero. Ma non era la scala la fonte di quella poco definita sensazione che gli scaldava lo stomaco e gli fiaccava le gambe. Sul lato destro, lungo tutta la parete, erano appese, ordinatamente disposte una accanto all’altra, le foto di famiglia, di entrambi i rami della famiglia. Decine e decine di ritratti, foto di gruppo, consunte foto giallastre, polaroid scurissime, che riempivano ogni centimetro della ridicola carta da parati che decorava l’enorme parete.

C’era la foto del Signor Giancarlo, il precedente marito della nonna materna, morto in Russia nel millenovecento e qualcosa. Il più banale dei ritratti in posa prima della partenza per la leva. Lo sguardo tronfio e vagamente pieno di sé, ingiallito e reso più profondo di quanto in realtà non fosse dal facile fascino del seppia. Quella divisa di una taglia più grande, che sarebbe dovuta essere utile per essere imbottita nel freddo del fronte, ma che non l’aveva protetto dal destino e dalle cartucce. Una vita lontana e di cui tutto sommato non sentiva il peso, ma che un suo scopo ai suoi occhi l’aveva avuto: lo zio Gianni, emigrato in Svizzera grazie alle agevolazioni come orfano di guerra, aveva potuto farsi una famiglia, figli e nipoti e ora si godeva pacioso e sorridente la meritata pensione. Gli stava simpatico lo zio Gianni.

Poi le classiche foto di gruppo della famiglia di suo padre. Tutti sempre nella stessa posizione, foto dopo foto: lui e le sue cinque sorelle in posa in fila indiana, dalla più giovane al più vecchio. Quella che gli piaceva di più, scattata al quarantesimo compleanno della nonna, era piena di particolari che lo mettevano di buon umore. Le gemelle, due gocce d’acqua, vestite come sempre allo stesso modo, con un pacchiano maglione rosso a collo alto e la medesima buffa smorfia di fastidio: avevano il muso perché avevano appena litigato. Ora non sembravano più nemmeno parenti, ma continuavano a litigare futilmente come sempre. E le spalline imbottite, i pantaloni dalle forme e i colori più improbabili, lo sguardo assonnato di mio padre, tutto concorreva a rendere quella foto buffa.

O le foto delle vacanze al mare coi cugini, fatte quasi per gioco con le usa e getta che si trovavano nei fustini del detersivo. Improvvisati scatti corali, fuori centro e fuori fuoco, nel vano tentativo di racchiudere in quattro bordi la sconclusionata vitalità della loro gioventù .E sullo sfondo la solita spiaggia affollata dalla variegata umanità vacanziera dell’ora di pranzo: le famiglie di tedeschi obesi alle prese con i loro tupperware di pastasciutta, le ronde di ragazzotti arrapati in cerca di qualche facile avventura, padri di famiglia annoiati dal caldo lanciare frisbee a figli come fossero cuccioli di labrador e via dicendo, un’accozzaglia di confusione che riempiva le foto di un’allegria colorata e di cui ti sembrava quasi di sentire il rumore.
E insieme a quelle decine di altre, ognuna a suo modo significativa nella sua memoria. Per lo più foto banali, o addirittura brutte, ma ognuna legata a momenti, racconti, memorie, che gli mettevano in volto quel sorriso venato di malinconia.

Quel muro di ricordi, alcuni vissuti, i più immaginati soltanto, gli davano la percezione di far parte di qualcosa che non aveva scelto, ma di cui percepiva di tanto in tanto l’importanza. Di appartenere a qualcosa di più grande, che non aveva uno scopo ne un fine, ma esisteva. “La nostra gente”, come era solita dire l’anziana nonna per identificare quella folla di parenti e amici che puntualmente si ritrovava a casa sua per le feste comandate. Non un qualcosa di cui andare consciamente orgogliosi, ma una sensazione soffusa che di tanto in tanto, lo aveva fatto sentire protetto, a casa.

Ma li in mezzo c’era anche lei. Non la vedeva più da una vita, storia passata e neanche di poco. Gli anni e la proverbiale acqua sotto i ponti avevano lavato via quella ferita e ora poteva anche scherzarci con gli amici o ripensarci su senza troppe malinconie. Ma quella foto di gruppo, al matrimonio del cugino Roberto, con lei che lo abbracciava stretto tra amici e familiari, lo infastidiva, come l’imbarazzo dei parenti nel parlarne anche dopo tanto tempo. Lei non faceva parte della sua gente, lo era stata, ma aveva preso un’altra strada. Nessun rimpianto, ma non meritava l’immanenza della parete, così come l’ex marito di zia Beatrice, fuggito dopo il matrimonio e gli antipatici cugini francesi che non si facevano mai sentire. Quella foto era un graffio, una macchia sopravvissuta alla damnatio memoriae della sua rabbia giovanile e lo infastidiva proprio in quanto tale. Non c’era rimpianto, ne tristezza, solo il ricordo di momenti belli avvelenati dalle menzogne, che gli ricordavano quando per la prima volta si era sentito stupido.

Ma quella sensazione acidula che gli punzecchiava li stomaco si perdeva dopo pochi attimi nella distesa di sguardi che popolava la parete. Così, ogni volta che saliva quella scala, soffermandosi senza quasi voler incrociare lo sguardo con nessuno di loro, coglieva su quel muro l’insieme di volti e gesti, calici alzati e bambini in lacrime, torte nuziali e ginocchia sbucciate, coglieva tra la mediocrità di vite uguali a milioni di altre, l’unicità di quell’affresco, l’affetto che legava tutte le tessere di quel mosaico e che lo faceva sentire indefinitamente protetto. Come da bambino, quando frignando in cerca di attenzioni interruppe un brindisi ad un matrimonio. Allora la nonna lo prese in braccio, lo baciò sulla fronte e gli promise che il nonno lo avrebbe portato a fare un giro sulla sua lambretta, come faceva sempre quando prendeva un bel voto a scuola.