venerdì 20 agosto 2010

Cronache di Mostri - Ritratto di Famiglia

Erano mesi che non si parlava di nient’altro che di quella foto. L’indomani sarebbe finalmente arrivato Monsieur Giraldi, il famoso fotografo. Si diceva che stava arrivando da lontano, da oltre il confine; d’altronde era uno dei più bravi fotografi in circolazione, aveva studiato a Ginevra, era normale che si facesse desiderare per qualche giorno. Dicevano che fosse così bravo che nei suoi ritratti gli stupidi sembrassero professori e i mostri non si distinguessero dai normali. Mai come quell’anno la foto di gruppo della compagnia, quella che sarebbe servita per i posteri, ma soprattutto per i cartelloni da affiggere in giro per il paese, aveva sollevato aspettative e tensioni.

Man mano che il fatidico giorno si avvicinava, una sorta di velato fervore aveva invaso le tende e le roulotte del campo. Lo potevi avvertire dal brusio continuo, specie durante le pause pranzo, dove solitamente dominavano il rumore di stoviglie sulla latta dei piatti o alla peggio qualche rutto o grugnito dei meno avvezzi al vivere civile. Le donne, anche quelle più brutte, colte d’improvvisa e irrefrenabile vanità, passavano le ore libere a scambiarsi consigli e belletti e provarsi i vestiti più improbabili. Tutto il campo era invaso da odori mai sentiti, un perenne brusio di chiacchiere e dall’operoso viavai di nani e ballerine, uomini e bestie, mostri e normali. Ma se i “normali” allenavano con lena la loro vanità in attesa del grande evento, i “mostri” non erano da meno, anche se l’effetto era assai diverso: non stupiva nessuno, infatti, che Ursus l’uomo d’acciaio avesse intensificato i suoi allenamenti nell’ultimo periodo e che passasse i pomeriggi sotto il sole per prendere colore; o che Magda, la cavallerizza di Algeri, aspettasse con trepidazione i vestiti di seta che aveva ordinato ad un mercante giù al sud e studiasse le proprie facce allo specchio in attesa del grande giorno. Ma quando si trattava dei mostri, la vanità assumeva loro malgrado contorni grotteschi, o peggio malsani. Giobbe il moncherino umano, da sempre a disagio con la propria immagine, passava le giornate affogando l’angoscia nel bourbon, per poi farsi accompagnare da qualche inserviente a farsi dire quant’era bello per pochi spiccioli da qualche prostituta del porto.

Le teste di cono, in gruppo come al solito, erano andate al ruscello con la vecchia Ester. Non gli faceva bene tutto quel clima di attesa, finivano per passare tutto il giorno a litigare e questo non giovava agli spettacoli. La settimana prima Bruto, il più piccolo di loro, aveva ferito per errore una bambina in prima fila per prendergli  il cappellino e solo l’intervento del proprietario, il signor Lodz, aveva evitato che le cose si mettessero male. Erano bastate poche studiate parole di quel piccolo diavolo dell’eloquio per mettere a tacere ogni dissenso. Egli sapeva di non poter punire o sgridare eccessivamente quei piccoli scherzi della natura: erano mostri spaventosi, ma avevano pur sempre l’animo di bambini viziati, e quello che veniva chiesto loro di fare sul palco andava contro il suo concetto di dignità umana. Ma Lodz era anche ben conscio che la “dignità umana” non gli pagava le spese di quell’enorme baraccone chiassoso, così aveva riposto nel taschino ogni scrupolo, com’era solito fare da quando svolgeva quella professione.

In molti erano preoccupati per l’umore di miss. Apollonia, la venere dei due mondi. I tempi in cui la sua bellezza abbagliava le folle erano un ricordo lontano e i suoi spettacoli si reggevano ormai solo sulla sua fama e l’abilità nel circuire gli uomini. Nessuno come lei sapeva tenere sulla corda quei bifolchi eccitati che si accalcavano sotto il palco solamente con l’attesa stessa del gesto, della mossa, di quel lembo di carne che immaginavano da settimane. Ma sotto la sua maestria ben poco era rimasto. La pelle di seta era divenuta pergamena, rinsecchita da anni di fondo tinta da quattro soldi e vita di strada. I capelli, ormai increspati e rovinati dal sapone, erano perennemente raccolti in una crocchia e coperti da pesanti parrucche. Ma malgrado l’inesorabile sfaldarsi della sua bellezza, Apollonia manteneva un portamento maestoso, regale, che riusciva ancora ad eccitare i poveri paesani più di un seno abbondante o un sedere tornito. Ma il suo umore da qualche settimana si era fatto cupo, e in molti erano in pena per lei.
La sua grande paura era che il tempo le portasse via anche questa magia, che il ritratto mostrasse a tutti il coniglio dentro il cappello e che il vecchio Lodz la sostituisse con qualche prostituta da quattro soldi raccattata in un bordello al Sud, come se ne vedevano sempre più spesso negli ultimi tempi. Ormai il talento per il ballo, il canto o la capacità tenere in pugno il pubblico erano stati sostituiti in blocco dalla disponibilità di mostrarsi. Ella sapeva che il tempo prima o poi le avrebbe chiesto il conto e temeva che quel momento sarebbe coinciso col giorno di quel maledetto ritratto.

E finalmente il giorno tanto atteso. Il grande Giraldi arrivò in un vortice di polvere su di una carrozza scura, semplice, ma elegante, trainata da due stalloni dalle movenze stanche. Era un omino paffuto dalla faccia simpatica e le movenze decise. Un paio di occhiali da vista tondi e spessi, sul naso, pochi arruffati capelli corvini che facevano capolino disordinati da sotto una coppola marrone. I suoi modi erano cordiali, ma deferenti, il che metteva in imbarazzo ogni possibile interlocutore. Chiedeva sempre con cortesia, consapevole che bastava la fama che lo precedeva a garantirgli che ognuno facesse come voleva. Quando mise tutti in posa nel piazzale polveroso davanti al tendone, spiegò, sforzandosi di tenere un tono di voce squillante, come tutti avrebbero dovuto restare immobili per un minuto e che lui avrebbe contato a ritroso da sessanta a zero per dare il tempo. Partì il conto alla rovescia e la mente di ognuno fu invasa di pensieri. Ognuno pensava a se stesso e l’incedere di quei numeri faceva crescere dubbi e rimpianti: “Sessanta, Cinquantanove… “Starò bene?”, “Avrò scelto l’abito giusto?”, “ventiquattro, ventitre… “Meglio che sorrida o che faccia un espressione risoluta?”, “cinque, quattro…”, “Avrò fatto bene a tenere il cappello?” “STOP!”. Era fatta.

Il giorno successivo l’agognato ritratto fu appeso sopra la zona ristoro e si animarono le discussioni:. La delusione di quasi tutti fu grande, nella foto ognuno riconobbe se stesso, ma spogliato di tutte le aspettative e le fantasticherie che settimane di attesa avevano alimentato. I mostri erano mostri, i brutti non parevano certo essere migliorati ed anzi anche i più attraenti apparivano artificiosi e innaturali. E poi erano banali, ognuno di loro era se stesso, ma avrebbe potuto essere chiunque altro. A parte i mostri, ovviamente. Le teste di cono ridevano soddisfatte, per lo loro già il riconoscersi in un ritratto era fonte di gioia. Giobbe bofonchiava mezze parole fumando un sigaro, celando a fatica la propria soddisfazione: senza braccia e gambe, piccolo, scuro e orribile, era quello che risaltava più di tutti in quel corale affresco di mediocrità. Tra il borbottare insoddisfatto dei manovali e gli acuti strepiti delle fanciulle deluse, solo una "normale", Miss. Apollonia se ne stava immobile nella sua elegante vestaglia di seta e non proferiva parola Fissò intensamente il ritratto per diversi minuti, poi si girò con un gesto lento per andarsene. Un sorriso soddisfatto e solare le incorniciava il volto mentre si dirigeva verso la roulotte di Lodz per farsi offrire un bicchierino.